Come vivere e come morire

14 gennaio 2020

San Felice – Tavernola – AV

Omelia del Vescovo Aiello

 

La festa di San Felice, che ci raggiunge all’inizio di un nuovo anno, ci dà la possibilità anche di scambiarci gli auguri per questo anno, che come ogni tempo nuovo incute sempre un po’ di paura, perché ci chiediamo cosa ci aspetta, cosa contiene questo calendario di trecentosessantacinque giorni, come li vivremo, cosa ci viene incontro, cose buone? Cose cattive? Gioie? Lacrime? Certamente difficoltà. Ed allora San Felice, sacerdote e martire, viene ad instradarci per dire – e ciò che si dice di un anno vale per una vita -: “Ma tu per che cosa stai impiegando il tuo tempo?”

Il tempo, sapete, è la moneta più preziosa che esista. Questi bambini, che stanno qui, sono i capitalisti, perché hanno tanto tempo, noi, invece, siamo i poveri; più andiamo avanti negli anni, più siamo poveri; ci impoveriamo perché non abbiamo tanti assegni da staccare; il carnet comincia ad assottigliarsi.

Ma poco o molto che sia il tempo, il problema non è “quanto”, ma “come”; come? Come lo viviamo? E “il come” non dipende dalle situazioni esterne, come purtroppo noi in maniera superficiale pensiamo, e cioè che “il come” non dipende da noi, ma dipende dalla vicina di casa, dal marito, dalla moglie, dai figli, dalla salute nostra o degli altri, cioè attribuiamo la responsabilità della nostra vita sempre a fattori esterni. A dire: “Sì, io vorrei, ma … mio marito, ma mia moglie è isterica, ma i miei figli sono ribelli, ma non c’è lavoro, ma…”, quasi a dire: “Sì, vorremmo vivere santamente ma le condizioni nelle quali viviamo non ce lo permettono”. Questa è una grande illusione! Prendiamo in giro noi stessi, perché i santi, e in particolare i martiri, dunque anche San Felice, ci insegnano che si può vivere bene, e dunque anche – e sembra una contraddizione -, serenamente, in mezzo a mille difficoltà.

 

Vorrei fermarmi un po’ sulla Prima Lettura, dove c’è una madre che insegna a sette figli come vivere e come morire. La prima domanda che mi viene per voi genitori è se noi insegniamo a vivere e a morire. Dice: ma il nostro compito è insegnare a vivere. No, il nostro compito è di insegnare a vivere e a morire. Dovremmo offrire loro, già da bambini, tanto più poi, andando avanti negli anni, da ragazzi, da adolescenti, da giovani, un solo motivo per vivere che sia così bello da essere anche un motivo per morire. Noi, nel linguaggio comune la utilizziamo questa espressione però non ce ne rendiamo conto: “così bella da morire!”, no? Diciamo di un’esperienza “bella da morire”. Ma insomma sembra…, se è bella è per la vita, no?, per dire una cosa al massimo della sua potenzialità. “Bella da morire”, “buona da morire” indica che la vita e la morte sono due facce della stessa medaglia. Allora dovremmo…, oggi i genitori sono sguarniti, – e non è neanche colpa loro – sguarniti rispetto ad una serie di pressioni che i figli ricevono a destinazione sul loro cellulare, sono sprovvisti di quest’arte; … dovremmo insegnare a vivere ai nostri figli, e a morire. Noi lo diciamo con un’espressione napoletana, normalmente in negativo, quando diciamo ad una persona, il massimo dell’offesa che si può fare ad una persona è questa, che si poteva fare: “Nun sai campà”. “Nun sai campà”, che significa? Non significa: “Non ti svegli la mattina, non hai appetito, non sai risolvere i bisogni fondamentali della vita…” No, è una cosa più radicale, significa che non sai rapportarti agli altri, alle difficoltà, alla vita, alla bellezza, ai drammi in maniera sapiente. Per cui vorrei chiedere a San Felice stamattina, per me e per voi, quest’arte di vivere e di morire, che i nostri padri ci indicavano con “campare”. Campare. Imparare a campare, che è prendere la vita in tutte le sue dimensioni. I figli, a cui questa mamma parla, stanno per morire, sono perseguitati, stanno per essere giustiziati, a causa della fede. Siamo nell’Antico Testamento ma ormai quasi alle porte del Nuovo, e c’è una chiarezza, come non c’era all’inizio, sull’immortalità, sulla vita oltre la morte, che non troviamo altrove, cioè già chiaro era che la vita, questa vita, da sola, è una misera cosa.

Adesso voi queste parole le ascoltate solo qui, in nessun altro luogo, che la vita, da sola, dalla nascita alla morte è veramente una cosa misera. Allora significa che c’è una grandezza che si estende oltre la morte, significa che quello che facciamo qui ha un’eco nell’eternità, significa che le cose belle che poniamo, che riusciamo a realizzare in noi, negli altri, nelle relazioni avranno un’eco bellissima nell’eternità, ma anche che i nostri errori avranno in qualche maniera un’eco dolorosa nell’eternità. Magari neanche più dall’altare voi queste cose le sentite; non voi, della vostra comunità di San Felice o di Aiello, no, in genere, una volta si chiamavano così: Novissimi. Magari nessuno di voi neanche più lo ricorda. “Novissimi”, che sembrano cose nuove, in realtà sono le cose ultime, ultime, dal latino, eh! I Novissimi.

I Novissimi sono: Morte, Giudizio, Inferno, Paradiso. Erano quattro. Dicevano i padri antichi che se uno medita su i Novissimi, difficilmente pecca, perché ha dinnanzi ciò che lo aspetta. Perché vi dico questo? Dite: “Ma forse hai sbagliato file ed hai preso quello della novena dei morti?” No, perché non si può capire il martirio ed il sì che San Felice dà al martirio, senza questa visione. Perché dice “Sì?” Perché i figli dei Maccabei con la loro madre vanno a morire giovani, oggi si direbbe: “Ma si sono persi il meglio, no?” Perché? Perché avevano chiaro ciò che l’attendeva. Noi non ce l’abbiamo più chiaro. Ne volete una prova? Tutte le questioni, adesso non parlo di voi perché sono libero, a volte i parroci sono meno liberi perché conoscono le storie, il vescovo che le storie non le conosce può parlare più liberamente.

Quando voi fate una questione di vita o di morte per un metro, mezzo metro di confine, magari andate in causa … dove volete arrivare? Volete arrivare a patto che è tutto qui, è tutto qui, allora un metro è importante, no?, mezzo metro, un filo spinato, un altro che ha messo un ramo un po’ più in là. Sono questi i grandi, gravi e gravosi problemi nella nostra vita… Con una battuta sempre dei nostri nonni che erano saggi, sapete come concludevano? “Ma tu quanto vuoi campare?”, cioè, se la vita è questa, allora avete ragione, fate causa, pagate cinquecento avvocati, andate in appello, andate…, ma se la vita non è questa, allora ma prenditi pure due metri, perché la pace è più importante, la pace è più importante, perché, dicevano sempre i nostri nonni, “È meglio un patto a perdere che una causa, no?”, ma adesso nessuno più lo crede, perché? Perché siamo tutti radicati qui nel presente, questa è la nostra vita, ce la dobbiamo godere ed allora anche un metro è un metro, e se non fosse altro per un motivo di prestigio, di ripicca, faccio causa. Oppure pensate quando si divide un’eredità, eppure si divide un’eredità dopo una morte, no? Quindi uno dovrebbe aver capito: viene dal morto, cioè viene dall’esperienza della caducità della vita; però un’eredità può dividere anche dei fratelli, delle sorelle, che, come dicevano i nostri antichi, oggi sono in fase nostalgica, “si dividevano il sonno”. Ma com’è? Prima ci volevamo bene, adesso ci scanniamo? Che è successo? Perché qui arriva il sole e là no, perché è esposto a Mezzogiorno o al Nord, ma quanto vale tutto questo rispetto all’eternità?

Ecco, anche se magari il mio tentativo può cadere nel nulla, ma il vescovo deve credere che quello che dice, anche se viene raccolto da una sola persona, va bene, tanto più se sono due o tre o dieci, ha in mente stamattina per intercessione di San Felice, che è andato incontro alla morte per non perdere la fede, per non dare cattivo esempio, possiamo capire che dobbiamo guardare oltre, oltre, oltre, non qui, non adesso. E questo ci porta anche nella condizione di perdere, perché abbiamo ascoltato dalla voce tonante del vostro parroco, che non ha bisogno di microfono come ho detto altre volte, “Se qualcuno, dice Gesù, vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”.

Questo è uno che vince o che perde? È uno che perde; è uno che impara a perdere; è uno che insegna a perdere; insegna agli altri ed impara per sé.

Ed allora forse, carissimi, dobbiamo cambiare tonalità di vita, quindi alla prossima questione di confine, perderanno un po’ di soldini gli avvocati, lavoreranno un po’ meno i nostri giudici, già super-oberati, con faldoni che non finiscono mai, e noi a dire “Ma va’ prenditi tutto, però lasciami la pace”, perché uno può avere anche tanti beni e può vivere anche cent’anni, ma se vive “arraggiato”, cioè sempre a vedere gli altri che cosa si prendono dal suo capitale, dalla sua proprietà, non si gode nulla.

Quindi i santi, alla fine, che hanno dato la vita, sono anche maestri di vita, perché ci riconducono ai termini essenziali, cioè: che cosa conta veramente? Chiedetevelo. Cosa conta veramente nella mia vita? Nella vita della mia famiglia? Cosa devo insegnare a questi ragazzi, a questi bambini? Come devo educarli? Cosa gli devo dire? Che devono sgomitare per andare a segnare o è meglio che passano la palla al compagno? Perché è meglio un’amicizia che un goal in più, segnato.

 

Vi sembrerà un discorso terra terra, in realtà poi è molto difficile, è molto difficile poi metterlo in pratica; è capire che il sapore della vita è un altro, rispetto a quello che vi propinano e voi tutti ubbidienti, anziani compresi, vi propinano dai mezzi della comunicazione sociale: “Compra questo, mettiti questo, vai qui, vai là, perché questa è la felicità”. No, no, puoi avere anche il mondo intero, dice Gesù, ma se perdi la tua anima, povero te, perché hai sbagliato tutto! Ed invece San Felice ha capito tutto. Per questo ha rinunciato anche alla sua vita, quando era in forse la sua fede, la sua testimonianza, ma sarà un po’ duro, però le cose bisogna dirle, altrimenti scompaiono completamente dal nostro orizzonte cristiano.

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Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.