Servire

31 gennaio 2020

Diocesi di Avellino – Polo Giovani

 

Good Evening – Preghiera Giovani –

 

“Servire”

 

Conduce: Mons. Arturo Aiello – Vescovo

 

Canto: DON BOSCO E NOI

 

Vecchio lo scrittoio, i tuoi libri adesso chiusi,

le finestre aperte sulla luce del tramonto…

Tu sul letto con il volto stanco ma sereno,

tante rughe quanti sono i giorni della vita.

Una vita lunga quanto il sogno di un bambino

che aveva illuminato ogni passo del cammino,

che aveva trasformato ogni attimo in amore,

che aveva raddolcito i momenti di dolore.

Ora intorno a te solo quei volti che sono il volto di una vita,

di una vita che no, non muore insieme a te, ma continua…

 

Rit. Come il chicco di frumento

che cade nella terra e poi rinasce

tu sei sbocciato dentro noi,

hai aperto i nostri cuor,

li hai colmati del tuo amor.

 

Molte volte sai io ho ripensato a te,

soprattutto quando c’era buio intorno a me

nella notte scura, senza stelle e senza luna,

quando nei miei occhi c’era solo la paura.

E fissando io questi occhi nei tuoi ho capito la tua fede,

quella fede che tanta forza ha dato a te, che ci doni…

 

Come il chicco di frumento…

 

Come il fiume verso il mare va

e si perde nel suo immenso

noi corriamo verso te

che dai forza ai nostri cuor,

che ci fai sperare ancora in te,

ancora in te, in te.

 

                                                ***

 

Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.

 

Abbiamo pensato che quest’incontro che coincideva per caso, ma niente è per caso con il ricordo di un eroe dell’avventura educativa, che porta il nome – e tolgo “San” perché sembra lontano – di Giovanni Bosco, Don Giovanni Bosco, come si firmava, poteva essere un bel messaggio per noi stasera, perché i giovani, checché se ne dica, cercano un padre. La figura del padre è sempre controversa perché vi si addensano le nubi del rancore, e forse delle carezze non ricevute, della comprensione che ci sembra di non ricevere, ma ricordatevi che tutti noi abbiamo bisogno di un padre, che sia il padre biologico o un altro padre; e di solito nella vita non c’è un padre solo, c’è il padre biologico per tutti; per alcuni il padre biologico è anche il padre, per altri al padre biologico si aggiunge una figura. E questa che vedete alle mie spalle, che per alcuni di voi sarà del tutto nuova, non certamente per i giovani dell’Oratorio, è l’immagine di un uomo che, cominciando da niente, da poco, è riuscito a costruire una grande famiglia perché aveva un’attenzione per i ragazzi, per i giovani del suo tempo. Siamo nel 1800: le questioni sociali, parliamo del Piemonte, di Torino e della periferia della città, erano grandi, e dunque c’erano sacche enormi di persone che vagavano, di ragazzi a cui nessuno faceva attenzione. Perché un padre è uno che ti guarda negli occhi, e dice: “Francesca, Lucio…”, sa il tuo nome e tu ti senti in qualche maniera attratto.

Noi preti, stamattina, abbiamo nell’Ufficio, che non è un ufficio che ci pesa, una cosa bellissima con cui apriamo la giornata della preghiera, abbiamo riletto questa espressione di San Giovanni Bosco, questo grande educatore:

“I giovani sono di chi li ama”.

Ecco, dite: “Ma dove stanno i giovani, perché i giovani non vengono? E i preti si lamentano: e i giovani…, si ubriacano, si fanno le canne, si…” di chi sono i giovani?

Giovanni Bosco, con tanta semplicità ma anche con l’intuito, è diventato un educatore che ha aperto una scuola sull’educazione, dice che i giovani appartengono a quelli che li amano. E un giovane subito capisce se l’adulto che ha di fronte sta sorridendo ma dentro è chiuso, se ha attenzione, se gli sta a cuore.

Vorrei cominciare questa nostra preghiera, stasera, con la frase di un poeta del ‘900, dice così: “Padre, anche se tu non fossi il mio padre, … per te stesso egualmente t’amerei. Si chiama Sbarbaro, forse l’avete incontrato questo poeta. Sbarbaro, non che era sbarbato, è sul padre perché sulla madre c’è una letteratura immensa, ma cercateli dei riferimenti al padre nella letteratura, dovete andare con la lente di ingrandimento. Questo è il verso, in assoluto, secondo me, più bello sul padre. Ve lo ripeto:

“Padre, anche se tu non fossi il mio padre, … per te stesso ugualmente t’amerei”. A dire che del padre ci si innamora, senza scomodare Freud ed i suoi complessi e le sue orchestre; del padre ci si innamora; come ci si innamora di tutte le persone che seguiamo. L’innamoramento non è solo un fatto che riguarda un uomo e una donna, un ragazzo e una ragazza, ma è una dimensione molto più ampia. Ci si innamora anche di un padre.

Ed allora se stasera ricordiamo Giovanni Bosco è per ri-motivarci nell’arte di educare, che significa – solo che è un po’ rischioso quello che sto per dire – fare innamorare qualcuno di te, ma non per fare il bellino: il padre che si veste come un figlio, il padre che dà la paghetta, il padre che dice “non lo diciamo a tua madre”, ma del padre anche esigente che però mi apre una strada, perché, sapete, le mamme ci tengono, ci trattengono, le mamme  dicono: “Non andare, fermati, ti fai male, non andare con la bicicletta…”; i padri: “Vai, vai!”; i padri sono quelli che aprono la porta; le mamme chiudono la porta, e dicono: “Gioca qui, stiamo insieme, giochiamo a tombola…”; i padri, invece, ci portano sul campo di calcio. Spero che qualcuno di voi abbia il ricordo almeno di qualche tiro, o meglio ancora di una partita di calcio, fatta col proprio papà. Sono momenti importantissimi, nei quali comprendiamo che nostro padre è un uomo, ma al tempo stesso è uno che ci apre la strada.

 

Chiediamo al Signore, stasera, di scoprire nella nostra vita questi padri. La canzone, il canto, con cui abbiamo iniziato, su Giovanni Bosco, ce lo ha fotografato stanco dopo una vita, e – attenti, eh! – come tutte le cose vere che si realizzano in una vita, tutto parte dal sogno di un bambino, perché Giovanni Bosco ha sentito questa chiamata ad essere educatore, che lo ha portato ad essere prete fin da quando era bambino; adesso è anziano, davanti al suo scrittoio fa qualche annotazione e ripensa alla sua vita, e dice: “É stata bella” perché, ricordatevi che una vita è bella se uno ha tanti figli, e Giovanni Bosco ne genera ancora, figli e figlie; una vita senza figli – rubo l’espressione, come sempre, ad Erri de Luca – “è un vicolo cieco del sangue”, cioè dove non sbuca da nessuna parte: non ho figli, non ho generato nessuno, nessuno si è innamorato di me, come padre.

Ripetiamo “come il chicco di frumento…”; restate ai vostri posti.

 

Rit. Come il chicco di frumento

che cade nella terra e poi rinasce

tu sei sbocciato dentro noi,

hai aperto i nostri cuor,

li hai colmati del tuo amor.

 

Ti ringraziamo, Signore, dei nostri padri, limitati ma belli, affascinanti. Grazie di questo padre, che è Giovanni Bosco, che questa sera ci raccoglie come raccoglieva, nei suoi Oratori, i ragazzi dell’’800, quelli del ‘900 e poi del 2000, e adesso li raccoglie a Capo Castello, qui nella nostra diocesi, e speriamo anche altrove. Grazie per queste presenze che aprono un cammino e facci innamorare di qualche padre. Amen.

Ci sediamo. Ci disponiamo ad ascoltare la Parola di Gesù.

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 6, 34-44)

 

Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose. 35Essendosi ormai fatto tardi, gli si avvicinarono i discepoli dicendo: «Questo luogo è solitario ed è ormai tardi; 36congedali perciò, in modo che, andando per le campagne e i villaggi vicini, possano comprarsi da mangiare». 37Ma egli rispose: «Voi stessi date loro da mangiare». Gli dissero: «Dobbiamo andar noi a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?». 38Ma egli replicò loro: «Quanti pani avete? Andate a vedere». E accertatisi, riferirono: «Cinque pani e due pesci». 39Allora ordinò loro di farli mettere tutti a sedere, a gruppi, sull’erba verde. 40E sedettero tutti a gruppi e gruppetti di cento e di cinquanta. 41Presi i cinque pani e i due pesci, levò gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai discepoli perché li distribuissero; e divise i due pesci fra tutti. 42Tutti mangiarono e si sfamarono, 43e portarono via dodici ceste piene di pezzi di pane e anche dei pesci. 44Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini.

                                                              

***

 

Abbiamo trascorso una settimana in questa sala; è stato bello, e questa sera adesso ci lasciamo guidare da questa Parola che potrebbe riassumere bene la vita, l’esperienza, l’entusiasmo, la passione per i giovani di Don Bosco.

Gesù si trova davanti ad una folla immensa che lo segue … attenti che Gesù non faceva annoiare come fa il vostro vescovo, Gesù parlava, e di lui certamente ci si innamorava, tutti erano innamorati di Gesù, pendevano dalle sue labbra, e la gente diceva: “Nessuno mai ha parlato come quest’uomo” … ma capite che poi finiscono le riserve e ci si trova, a sera, con questa folla immensa, lontano dall’abitato, e i discepoli dicono a Gesù: “Ma – tirandogli la veste, come si faceva una volta con i preti – ma vuoi finire questa cosa perché è tardi, si è fatto tardi, dobbiamo tornare a casa”. E Gesù dice una cosa bellissima, dice: Date voi stessi da mangiare, cioè facciamo una casa qui.

Dicevamo prima, scherzando, con Don Catalin, che è stato uno di quelli assidui al triduo del Piccolo Principe: “Ci rivediamo di nuovo qui, facciamo anche un letto e non ne parliamo più”, cioè Gesù dice non solo di sfamare, di risolvere un problema, ma si tratta di fare famiglia.

Don Bosco ha tentato di fare, e ci è riuscito, di fare famiglia per ragazzi che una famiglia non ce l’avevano, che avevano una famiglia disgregata, che cercavano un futuro ma non c’era all’orizzonte, come adesso, facciamo famiglia. E sapete per “fare famiglia” bisogna mangiare insieme. Lo dico a voi giovani che quando si tratta di mangiare avete sempre qualcos’altro da fare. Per fare famiglia bisogna mangiare insieme, parlare, e dormire insieme, altrimenti siamo degli amanti, che si incontrano ogni tanto quando gli fa comodo ma non costituiscono uno “stato di famiglia”.

E i discepoli sono smarriti davanti a questa indicazione di Gesù, e dicono: “Mah, come facciamo a sfamare tutta questa gente, andiamo a vedere che cosa abbiamo, abbiamo pochi pani e pochi pesci. Ma che è questo per tanta gente?”, cioè le nostre risorse sono niente.

Attenti, ragazzi, eh!, che anche questo posto, nel quale state, nasce da un atto di fede – è vero Don Enzo? -, nasce da un atto di fede. “Ma non abbiamo i soldi…, ma non fa niente, ma…”, poi magari il nostro economo è un tantino recalcitrante. Ricordatevi nella vita che se volete fare le cose solo quando avete i soldi, non le farete mai. L’importante, non sono i soldi, è l’amore, è l’amore, perché è come se Gesù dicesse: “Quanto amore avete?”, e loro, invece, si guardano in tasca per vedere quanti spiccioli hanno, per metterli insieme, ed è una miseria, ma se c’è un grande amore, si fanno cose grandi, se non c’è amore anche se hai milioni di euro, non farai nulla. Ricordatevelo!

Che facciamo con questo pane, questo che vedete alle mie spalle? lo nascondiamo?, ce lo mangiamo a piccoli morsi, di nascosto dagli amici o lo condividiamo?

Questa è la grande svolta della vita. O mi mangio tutto quello che c’è, come fanno adesso, come fa adesso l’umanità o i grandi dell’umanità, ci mangiamo tutte le energie e poi chi si è visto si è visto, oppure decidiamo di con-dividerle, cioè di dividerle; normalmente la divisione è una sottrazione ma non così nell’amore, perché nell’amore la divisione è una moltiplicazione. Quando io divido quello che ho, quello che ho mi si moltiplica. La mia vita, se non mi credete, è stata all’insegna di questo slogan: “Condividi quello che hai, non lo nascondere, non lo sottrarre, non te lo riservare tutto per te, e tah!” Adesso sta pensando quel signore che è dietro: “Eccellenza, mi dovete dare diecimila euro”. Non so se lo sta pensando Ottavio, eh! E dice: “È bello parlare, stasera non me ne vado di qui se non mi pagate la fattura”. Io sorrido perché in queste situazioni mi sono trovato tante volte, ma ogni qualvolta ho diviso, s’è moltiplicato. Provateci anche voi.

È questo diciamo il criterio, la matrice di tutta questa pagina di Vangelo, e di quella vita di quegli eroi che noi chiamiamo santi. Tu saresti in grado di dividere, di condividere quello che sei, quello che hai, perché sia per tutti moltiplicato? È una sfida che vi lancio, non io, ma Gesù, di cui abbiamo ascoltato poc’anzi; e allora ci fermiamo un attimo su questi verbi.

 

Beh, prima c’è “prese” (Andiamo prima a prendere … senza far crollare la parete). Un pane innanzitutto va preso. Ma tu vuoi essere preso?

Qui ci sono cinque giovani, che l’anno scorso, non vi dico dove, altrimenti nessuno di voi più ci mette piede, sono venuti a fare un’esperienza e sono stati presi, perché un pane lo può prendere da una cesta, lo devo prendere dal fornaio, lo devo prendere dal forno, lo devo prendere … e tu ti vuoi far prendere? Questo è un primo interrogativo.

Don Bosco si è lasciato prendere, prendere dalla compassione che gli ha fatto vedere quelli che gli altri non vedono, si è lasciato contagiare (in questi giorni il contagio ci fa un po’ paura. Smettetela di farvi prendere da queste smanie, rimandate dai mezzi della comunicazione sociale, altrimenti non vi baciate più; vietato baciarsi fino al prossimo avviso, tra dieci anni, quando sarà passato il contagio).

Allora bisogna essere presi; se uno è preso è preso, no? Vedete, “preso” noi lo indichiamo sia nella maniera concreta della mano che prende, ma anche in senso affettivo. Questo ragazzo è preso da questa ragazza, è preso da questa amicizia, è preso da questo sogno. Dobbiamo essere presi innanzitutto. E Don Bosco si è lasciato prendere. Se qualcuno di voi, non lo fate qui, non faccio come Kiko, non ho questo carisma, ma sarebbe bello che questa sera qualcuno di voi dica: “Mah, sai che c’è di nuovo? Mi lascio prendere”, perché scendete dalla sedia, vi nascondete dietro a…, speriamo che il vescovo non guardi proprio me. Essere preso. L’ho preso.

 

Poi “rese grazie”, cioè lo benedisse. Troviamo questo verbo: “Benedire.

Il prossimo 13 – ve lo ricordate perché è la vigilia di San Valentino, non perché è la vigilia di San Modestino – il prossimo 13 febbraio il vescovo ordinerà Emmanuele diacono. Anche Emmanuele si è lasciato prendere e il vescovo lo chiamerà e pronunzierà su di lui una benedizione, che è stendere le mani sul suo capo. Sono i verbi, se ci pensate, che noi ascoltiamo ogni giorno, ogni domenica – spero che abbiate questa consuetudine – nella celebrazione eucaristica. “Prese il pane, rese grazie”. Non basta essere preso, se non sono anche benedetto.

Don Bosco è stato preso e benedetto il giorno della sua Ordinazione, ma anche benedetto tante volte; e, attenti, non solo benedetto da Dio ma benedetto anche dai suoi figli: “Menomale che ho incontrato Don Bosco, mi sarei perso, menomale che ho incontrato Fra Gianluca…”. Fra Gianluca, che è di Avellino, mi dice Alfonso che quando lui, Alfonso è un altro seminarista – ma qui sono tutti malati? – è un altro seminarista di questa diocesi, che sta al quinto anno, Alfonso mi racconta sempre che incrociava Don Gianluca quando lui, anziché andare a scuola, si concedeva diciamo una “pausa”, come fate voi, incontrava Don Gianluca, che gli diceva: “Alfonso, non sei andato a scuola?”. Diventava il suo grillo parlante, la sua voce critica, e forse anche da questi rimproveri, magari dolci, eh, di Fra Gianluca, Alfonso avrà detto: “ma forse è il caso che io faccia il mio dovere”, e benedetto.

Ma sapete la cosa più difficile di questi verbi qual è? L’hanno già scoperto, ed è: “spezzato”, crack! Perché è difficile? Perché è doloroso. Quando diciamo: “Sono stanco, ho la schiena spezzata”, cosa intendiamo dire? Che soffro, perché l’amore, qualsiasi amore – ricordatevi – vi prende, vi benedice, vi esalta e vi spezza. Un amore che non ti spezza, non è un amore, cioè un amore senza dolore non esiste.

Mi ha sempre colpito della vita di Don Bosco questo particolare: una volta sulla vita di Don Bosco ci ho pianto, leggendola, da giovane prete, perché nel mio piccolo vedevo che stavo affrontando le stesse sue difficoltà.

Don Bosco, per tutte le sue grandi opere, non aveva soldi ma faceva cose grandi andava a chiedere l’elemosina, ovviamente non ai poveri, ma alle signore impellicciate, con gli orecchini, con i collier, di Torino, e saliva e scendeva le scale… Una volta si presentò da una signora, forse c’era già stato la settimana prima, il mese prima, la signora stava un po’ nervosa, come succede a volte alle donne e non solo alle donne, allora Don Bosco disse: “Buongiorno contessa, sono venuto sa, sì, è vero già il mese scorso sa l’oratorio, i ragazzi, la fame, il pane, le castagne…”, la signora, che si era svegliata un po’ stizzita, gli dà uno schiaffo!, a Don Bosco. Voi come avreste reagito? Magari qualcuno di voi avrebbe tirato fuori un manganello o avrebbe dato uno schiaffo alla contessa; in tutto questo Don Bosco non si scompone e dice: “Grazie, contessa, questo è per me, e per i miei ragazzi?” Questo è essere spezzati, perché per fare certe cose uno deve perdere la faccia; perché non tutti ci dicono: ”Ah bravo, bravissimo Don Bosco bravo, bravissimo, Don Vitaliano bravo, bravissimo… No. Ad essere spezzato è essere perseguitato; vedete che la gente non condivide: “Eh, tutte queste cose, si poteva dare ai poveri, invece avete fatto l’Auditorium”, ma qualcuno lo dirà prima o poi.

Ragazzi, se non accettate che l’amore vi spezzi, dice Gibran ne Il Profeta, “L’amore quando ti chiama, seguilo, anche se ha vie ripide e dure, perché l’amore come ti esalta, ti spezza”, cioè come ti fa gioire, così ti fa soffrire. Se adesso voi aveste sessant’anni, settanta anni, come i signori che stavano qui ad affollare la sala ieri e l’altro ieri ed ancora ieri l’altro, avrei detto: “Come Violetta dice nella Traviata…”, ma non posso fare questa citazione a voi, perché: cos’è la Traviata, chi è Violetta, chi è Alfredo…, però, sapete che l’amore – dice quest’aria dell’”800 – è “croce e delizia”, è bello ma costa.

Ed infine, una volta che uno ha accettato d’essere preso, che in questo momento è la vostra difficoltà più grande, perché, se non sono preso, non arrivo alla benedizione e non accetto d’essere spezzato, perché, dopo essere spezzati, è facile essere dati. Attenzione … “Dare”. Sono dato.

Questi sono i verbi dell’amore, e l’amore ti prende, l’amore ti benedice, l’amore ti spezza, l’amore ti dà, si dà, non si tiene per sé.

E tutto questo ha come sintesi “servire”,

perché “servire” è accettare d’essere preso,

“servire” è accettare d’essere benedetto,

“servire” è accettare d’essere spezzato,

“servire” è accettare d’essere dato.

Prendete e mangiate, date, datevi. Mi fermo un attimo, e lasciamo al nostro tastierista di aiutarci a riflettere.

A che punto sto? Sono già a tutti e quattro i verbi? …, non credo, ma già se stasera accettate d’essere presi, già abbiamo fatto un passo avanti enorme. Qualcuno di voi forse ha già sentito qualche “crack” in un amore, in un’amicizia nella propria vita; quale verbo, in quale verbo in questo momento io mi ritrovo? Lascio questo compito a voi in qualche minuto di silenzio.

 

Intermezzo musicale

 

Grazie per Einaudi, che il nostro tastierista ci sta offrendo. Adesso, vedete, il problema che io mi vorrei dare solo a Maria, a Luigi, a Francesca, e guai se poi dovessero prendersi un pezzettino di me anche Eduardo, Eleonora, e Zaccaria ammesso che qualcuno ancora oggi possa portare questo nome -, cioè noi vorremmo scegliere una persona a cui darci, perché sappiamo che ci vuole bene, ci cura, ci fa le coccole, ma forse a volte, direi sempre, siamo chiamati ad esser consegnati, ad essere dati ad un altro che non amiamo.

Erano tutti bravi i ragazzi dell’Oratorio di Don Bosco? Tutti che dicevano: “Grazie Don Bosco!”; erano anche ragazzi di strada, perlopiù erano ragazzi di strada, non erano certamente i figli della noblesse torinese. Ed allora Niccolò Fabi adesso ci aiuta a capire chi è l’altro a cui dovrei essere dato e per cui sono spezzato. Quindi ascoltiamo questo testo: ma l’altro chi è?

 

 Io Sono L’Altro

Niccolò Fabi

 

Io sono l’altro
Sono quello che spaventa
Sono quello che ti dorme
Nella stanza accanto
Io sono l’altro
Puoi trovarmi nello specchio
La tua immagine riflessa
Il contrario di te stesso
Io sono l’altro
Sono l’ombra del tuo corpo
Sono l’ombra del tuo mondo
Quello che fa il lavoro sporco
Al tuo posto

Sono quello che ti anticipa al parcheggio
E ti ritarda la partenza
Il marito della donna di cui ti sei innamorato
Sono quello che hanno assunto quando ti hanno licenziato
Quello che dorme sui cartoni alla stazione
Sono il nero sul barcone
Sono quello che ti sembra più sereno
Perché è nato fortunato
O solo perché ha vent’anni in meno

Quelli che vedi sono solo i miei vestiti
Adesso facci un giro e poi mi dici
E poi

Io sono il velo
Che copre il viso delle donne
Ogni scelta o posizione
Che non si comprende
Io sono l’altro
Quello che il tuo stesso mare
Lo vede dalla riva opposta
Io sono tuo fratello
Quello bello

Sono il chirurgo che ti opera domani
Quello che guida mentre dormi
Quello che urla come un pazzo e ti sta seduto accanto
Il donatore che aspettavi per il tuo trapianto
Sono il padre del bambino handicappato
Che sta in classe con tuo figlio
Il direttore della banca dove hai domandato un fido
Quello che è stato condannato
Il presidente del consiglio

Quelli che vedi sono solo i miei vestiti
Adesso vacci a fare un giro e poi mi dici
E poi mi dici
Mi dici
E poi mi dici
Mi dici
E poi mi dici
E poi mi dici
Mi dici

 

Chi è questo altro a cui io debbo essere consegnato? Niccolò Fabi ci fa un po’ una carrellata di volti, di situazioni, di altri accanto a noi, altri contro di noi, altri che sono la nostra controfigura, quello che ti toglie il posto, “il marito della donna di cui ti sei innamorato”, quello al cui posto vorresti essere ma non ci sei: è l’altro, e l’altro fa sempre problema.

E qui Fabi ci offre una soluzione per capire l’altro, perché all’altro gli puoi fare una foto, vuoi fare un selfie pure lui?, è facile!, ci puoi stare un attimo, ci puoi fare quattro chiacchiere, gli dai l’elemosina, condividi un panino… No.

“quelli che vedi sono solo i miei vestiti / adesso vacci a fare un giro e poi mi dici”.  Anche in quelli del Presidente del Consiglio, magari vorrei stare al posto di Conte, ma non lo so; vorrei stare al posto del vescovo. Ma prego! Quando guardiamo l’altro, lo pensiamo sempre … catalogandolo, però prova a metterti nei suoi panni, prova a metterti nei suoi panni. Ed allora, soltanto allora lo capirai. Ora vorrei invitarvi a farlo questo gesto: no, non completamente, però se avete una felpa, passatela a quello accanto, adesso toglietela e la passate a quello vicino a voi, cambiate un attimo … è una preghiera, fattuale; non vi preoccupate che vi mettete la pelliccia della signora, non fa niente, non vi fotografiamo; mi cambio i vestiti, forza … Don Luca … le suore che si scambiano il velo…

Perché vi ho fatto fare questo gesto? Non è un gioco. Perché adesso ascolto la canzone con la maglia dell’altro, con la felpa dell’altro, con il profumo dell’altro, dell’altra; è di mio gusto? Probabilmente no, perché anche noi le nostre cose non le vogliamo dare, ma quello che è più difficile è: non vogliamo metterci nei panni dell’altro che ha bisogno. Il nostro giovane qui era già pronto per mostrare i suoi addominali a tutta l’assemblea, ma a volte mettersi un abito di un altro fa tanto problema: magari ci sarà il contagio (a proposito di contagio domani andate tutti, andiamo tutti dai cinesi a comprare qualcosa, perché adesso questi poveri cinesi dei nostri negozi ad Avellino rischiano di fare la fame, anche se non c’entrano niente, allora io lo farò, me l’ero già proposto e non pensavo di indicarlo a tutti, domani vado dai cinesi e mi compro tutto il negozio. Andate in vacanza, compriamoci qualcosa, per dire: “Non vi guardiamo con sospetto, perché il contagio non è un fatto vostro, è un fatto nostro”. Allora riascoltiamo, andando verso la conclusione, la canzone, adesso con il giubbino, con la pelliccia, con la felpa dell’altro, perché io non sono i miei vestiti. “Quelli che vedi sono solo i miei vestiti / Adesso vacci a fare un giro e poi mi dici”. Ascoltiamo.

 

Io Sono L’Altro

Niccolò Fabi

***

 

Dice il Papa Francesco nella “Christus vivit” che è la lettera  che ha indirizzato a voi, a voi giovani ed a tutta la Chiesa sui giovani e per i giovani che ognuno di noi ha nella vita un compito assegnato, che è il senso della sua vita e, se non svolgi questo compito, tu sei un fallito, adesso “tu sei un fallito” lo dico io,  il Papa non utilizza proprio questa espressione, cioè ognuno di noi viene al mondo con un compito che riguarda questi verbi: essere preso, benedetto, essere dato, senz’altro essere dato, e se questo compito non lo svolgo io, non lo svolgerà nessuno. Ricordatevi, ragazzi, che questo compito non riguarda me, riguarda sempre altri. “Che posso fare io per questi ragazzi?”, si è chiesto Don Bosco. E che puoi fare tu per un altro, per altri, per tutte le devianze e i pericoli che vediamo in giro.

È bello chiedere l’intercessione di Don Bosco, che è stato padre di tanti ragazzi e lo è ancora, perché ciascuno di noi avverta che non è qui come un consumatore d’aria, d’ossigeno, ma è qui con un compito specifico, che riguarda sempre il “servire”, e “servire” significa che c’è un altro che aspetta d’essere servito, d’essere amato, d’essere guardato, d’essere chiamato per nome, d’essere invitato alla mia mensa, ai miei giochi.

 

Vorrei dare un attimo la parola a Suor Pia, non gliel’ho detto prima per non farla emozionare. Dove sta Suor Pia?, vieni un attimo, con la felpa che avrà preso da qualche altro, presumo. Noi abbiamo in diocesi la presenza delle suore salesiane perché Don Bosco ha messo su questa famiglia al servizio dell’educazione, e vorrei…, non te l’ho detto perché tu parlassi con il cuore. Dicci qualcosa di Don Bosco e concludiamo.

 

Intervento di Suor Pia

 

Grazie a Suor Pia. Chiudiamo con questo sogno di Don Bosco. Don Bosco diceva: “Voglio fare di questi ragazzi degli onesti cittadini e dei buoni cristiani”. Sembra un progetto di minima, in realtà, magari si facesse questo nelle scuole, nei luoghi di educazione, cioè questo doppio rapporto con la Storia e con l’Eternità. E quando, anziano, chiuse la sua vita disse ai suoi giovani, adesso lo dice a noi: “Vi aspetto tutti in Paradiso”.

Per dire: “Questa festa non deve finire, non finisce qui, la tua vita non finisce qui”: se siamo spezzati con dolore, se siamo presi e non vorremmo, se siamo benedetti, e ci troviamo che il vescovo ci mette le mani in testa, se siamo contati, questo è adesso nel tempo, ma poi siamo tutti invitati ad una mensa, ad una festa che, a differenza delle vostre, delle nostre, non finisce mai; è una cosa bella, dovete pensare il Paradiso come ad una festa che non finisce mai, che cosa bella, la cosa più tragica di una festa è quando finisce. Vero? Ci siamo preparati, ci siamo imbellettati, abbiamo fatto le prove davanti allo specchio, poi ad un certo punto a mezzanotte – una volta! -, l’una, le due, le tre, le quattro, le cinque sorge il sole, andiamo a prendere il cornetto caldo, ma è finita, è finita. Finiscono le feste qui, ma le feste qui sono un’indicazione per una festa che non finirà, che si chiama Paradiso. Allora, Don Bosco ha fatto questa promessa ai suoi ragazzi, ai suoi giovani, ai suoi figli, a dire: “Guardate che mica finisce qui la nostra storia, mica finisce qui la mia paternità nei vostri confronti, perché adesso ci siamo visti qui, abbiamo fatto l’Oratorio, la scuola di avviamento professionale, ecc…, ma poi ci vediamo tutti in Paradiso. Vi aspetto tutti in Paradiso”.

Il vescovo, invece, un po’ più vicino, vi aspetta, come vedete sull’ultimo foglio, al prossimo appuntamento, che sarà l’inizio della Quaresima; lo vivremo qui, alle ore 20:00, perché, dopo aver fatto la festa di Carnevale, cominciamo insieme il cammino quaresimale con voi, con altri, anche con gli adulti che lo volessero, perché questa adesso diventerà la nostra sala di preghiera, la nostra sala cinematografica, ma anche la nostra sala per l’Eucaristia.

Ed allora Don Bosco ci aspetta tutti in Paradiso, il vescovo, invece, più terra terra, più a media scadenza, vi aspetta il 26 febbraio alle 20:00, per cominciare insieme la Quaresima. Adesso ci mettiamo in piedi.

Intanto vi anticipo che riceverete, uscendo, un bel panino con… segreto, chi l’ha detto il salame?, i segreti bisogna mantenerli, perché questo panino? Perché il pane va condiviso, perché Don Bosco ha messo su tante mense, ha dato il pane della cultura, il pane della fede, il pane dell’affetto, ed allora è bello, non ve lo portate a casa, “adesso me lo mangio io solo”, invece ce lo mangiamo tutti sul piazzale del Polo, quindi riceverete questo panino, che è come un sacramentale – utilizzo questo termine grosso, per dire che è il segno di un Pane più importante, che è quello della fraternità che, quando celebriamo l’Eucaristia, è il Pane eucaristico. Ci teniamo per mano e diciamo insieme:

Padre Nostro…

 

Prima della benedizione, se conoscete qualche contessa ad Avellino, datemi l’indirizzo, perché io sono pronto a prendermi tutti gli schiaffi, purché mi faccia un bell’assegno, perché abbiamo tanti di quei debiti; adesso i diecimila di Ottavio sono quisquilie, però per dirvi che poi i sogni, diceva Suor Pia, ai sogni bisogna dare le gambe, e le gambe, a volte, sono un tantino traballanti, fanno “giacomo giacomo”. Sapete l’origine di questa espressione, la conoscete, no? Le gambe fanno giacomo giacomo quando traballano, perché, chi va a Santiago di Compostela cammina per centinaia di chilometri, almeno cento chilometri, trecento è tutto il cammino dalla Francia, arriva che le gambe… allora le gambe fanno giacomo giacomo, e quindi questa è l’origine di quando le gambe fanno giacomo giacomo; ed anche al vescovo qualche volta le gambe fanno giacomo giacomo quando bussano e chiedo: “Chi è?” “Eccellenza, la fattura, dovete pagare…” No, Don Bosco ci pensa, state tranquilli!

 

Benedizione del Vescovo

 

Canto finale: Inno a San Giovanni Bosco

 

***   

Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.