La domanda che sorge ad ogni morte: perché?

Riardo, 15 Dicembre 2021

Celebrazione Eucaristica

per le Esequie di Don Alfonso De Cristofaro

Omelia di S.E. Mons. Arturo Aiello

 

Don Alfonso ha lasciato scritto che questa Eucarestia doveva essere gioiosa come una festa, ma è difficile: come se fosse facile fare festa davanti alla morte!, come se fosse facile prendere la parola in questo momento su tante macerie! Le macerie di una vita stroncata, le macerie di sogni, le macerie – e forse è l’aspetto più difficile per la nostra fede, che forse subisce scandalo – delle nostre preghiere inascoltate, perché abbiamo invocato, pregato in tanti; le stesse preghiere di don Alfonso sofferente è come se, in questo momento, davanti a questa bara che raccoglie e custodisce i suoi resti mortali, fossero rimaste inascoltate.

Il nostro compito, carissimi, è di dire parole – non senza difficoltà – parole rotte dal pianto, sopra le macerie, tante macerie (Come cantare i canti del Signore in terra straniera?, dice il salmista).

Appena sabato sera, in un tentativo di estremo saluto in cui abbiamo pregato insieme, detto le parole essenziali (perché davanti alla morte non ci sono tante cose da dire, non si può fare poesia), abbiamo recitato l’Atto di abbandono di Charles de Foucauld (mi ha seguito, conosceva a memoria questo testo). Poi, appena qualche ora prima della morte, come insorgendo, mi ha detto: “Ma io voglio fare ancora tante cose!”. È sulle “tante cose” che non si faranno che noi siamo chiamati a danzare, su queste aspettative, perché la vita vuole vivere, perché la vita, anche se si fa continuamente esperienza della morte, è come se la sorpassasse. Noi siamo chiamati, questa mattina, a emettere un atto di fede nel Dio della Vita in cui Alfonso ha creduto e che ha annunciato da prete, anche in questa comunità, come parroco.

Sarebbe facile annunciare la vita in un tempo di primavera, che è in assoluto la stagione più bella in queste terre dove i pescheti fioriscono, dove tutto sembra promettere bene, arridere alla speranza, ma è difficile farlo in momenti come questi. La fede è quella di Gesù Crocifisso, la fede è davanti alla Croce, la fede è quando dobbiamo segnare il passo davanti a colloqui che si interrompono e che continuano misteriosamente, anche se noi sentiamo tutto il peso del silenzio che grava e che si fa crosta di dolore.

Avete ascoltato – e questo ci consola – nel Vangelo di oggi che anche Giovanni, che noi abbiamo visto così sicuro nell’annunciare il Veniente Domenica scorsa, andare in giro e dare risposta a tutti coloro che gli ponevano interrogativi, è dubbioso anche lui. “Sei tu – manda a dire attraverso due dei suoi discepoli – colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. È in crisi anche il Battista? Si aspettava un Redentore rivoluzionario, violento – egli stesso lo è stato nella predicazione – e, invece, il Rabbi, che egli stesso ha indicato come l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo, sciogliendo da sé i discepoli perché seguissero il giovane Rabbi, adesso Gesù di Nazareth, sembra percorrere passi diversi. Dio viene sempre in maniera diversa da come lo aspettiamo e da dove lo aspettiamo. Di qui nasce lo scandalo, è scandalizzato anche il Battista. Ci consola questo, perché a volte ci sentiamo colpevoli di lacrime, di domande, di scandali che noi stessi subiamo: averlo come compagno (è così forte, così guerriero, e adesso è nella condizione di chi fa domande, perché disorientato) ci aiuta stamattina, perché anche noi avremmo da fare tante domande. Perché? Perché?

La domanda che sorge ad ogni dolore e ad ogni morte è: perché?

Non c’è una risposta. Non c’è una risposta immediata. C’è una risposta rimandata, c’è una risposta da credere, c’è una risposta che è come un seme che, poi, chissà quando, diventerà albero, fiorirà e farà frutti. Adesso è un seme da mettere nella terra, come le spoglie mortali di Alfonso che tra poco saranno poste nella terra come il seme in attesa della resurrezione.

Ho avuto modo di accompagnare don Alfonso nel suo discernimento. Sono qui alle mie spalle i quattro, che con lui facevano cinque, in una “primavera” del 2007, piena di pollini e di doni (ci accorgiamo sempre della grazia quando è già passata). Se faccio memoria di quella “primavera”, degli Esercizi spirituali ad Avezzano (Alfonso era impiegato in banca, con il mutuo per la casa, con un progetto di vita diverso da quello che avrebbe scoperto), ricordare che siamo stati in una grazia – non solo loro, ma anche noi, anche voi – ci aiuta, perché la grazia si conserva con la memoria della grazia. Non eravamo noi, noi raccoglievamo a piene mani ciò che il Signore ci donava (Infatti nel mio arco non ho confidato, e non la mia spada mi ha salvato – dice il salmista). Alfonso vi giungeva già con un cammino compiuto ad Assisi (allora c’era un ponte spirituale tra Sparanise ed Assisi, tanti andavano ai corsi vocazionali, alcuni erano partiti come frati). A volte si parte in tanti e si arriva in pochi, ma da quella esperienza degli Esercizi di Avezzano quei cinque partirono insieme e arrivarono insieme in un giorno di cui abbiamo fatto memoria insieme. “Ti ricordi?”, gli ho detto sabato sera. “Sì, è stato un giorno bellissimo”, mi ha detto Alfonso sul letto di morte.

In questi otto anni, Alfonso ha svolto il suo Ministero con la sua umanità: con i doni e con le fragilità della sua vita. Noi non stiamo qui a dire che era perfetto, perché nessuno di noi lo è. A volte, soprattutto noi preti, troppo presi dall’indicare la fragilità della bellezza, non ci lasciamo commuovere dalla bellezza della fragilità. A me sembra d’averla guardata, a volte anche sofferta, la bellezza della fragilità di Alfonso, la sua sensibilità a volte estrema, esasperata, malata, come sempre accade in chi è sensibile e che vive in maniera paradossale certe parole, certi sentimenti. Il suo cammino non è stato facile. Chi va dietro a Gesù deve prendere la croce, rinnegare se stesso (sottolineo queste cose per evitare di innalzare le persone, perché poi, non essendo alla nostra portata, diciamo: “Beati loro” e così ci scrolliamo di dosso l’impegno a fare di più).

In una delle ultime telefonate dall’ospedale di Caserta, mi ha detto: “Eccellenza, voglio chiedervi perdono, perché vi ho fatto disperare quando ero seminarista”. Questa cosa mi ha commosso. Gli ho detto: “Ma io non ricordo niente”. Un po’ ho mentito, ma un po’ effettivamente non ricordavo, per dire che poi andiamo dietro a Gesù così come siamo, con le nostre fragilità. Alfonso ha portato le sue e tu devi portargli le tue. E ci salveremo così: non con un io ideale che non c’è, ma con la realtà delle nostre difficoltà. Una volta ricordo – e non è neanche nel mio stile – d’aver lanciato fuori dalla finestra dell’Episcopio il suo cellulare. Adesso lo ricordo sorridendo e Alfonso stesso sorriderà: è stato un cammino difficile.

Questo cammino si è fatto ancora più difficile a contatto col dolore in questo anno e mezzo di calvario. E se il martirio cancella ogni peccato – così è nella percezione della Chiesa fin dall’antichità – certi martirii di sofferenza, di chemio, di interventi, di cancro, che si fa anche timore a pronunciare come parola, questo martirio goccia a goccia, come le flebo che scorrono e gettano veleno nel nostro sangue, forse anche questo martirio lava.

Nell’incontro di sabato sera gli ho detto: “Coraggio, vai avanti fino all’ultimo in questa Messa”. Noi che celebriamo l’Eucarestia veniamo implicati in quello che celebriamo. È facile “dir Messa” – come si diceva una volta – ma è così difficile e doloroso, poi, entrare in quello che celebriamo, che è la morte – certo, anche la Resurrezione – di Gesù. Anche in questa Eucarestia noi ci accostiamo al mistero che ci ha salvato e che ha salvato Alfonso dal naufragio della morte, dai suoi scoraggiamenti. Ovviamente questo vale per i battezzati, ma per noi preti vale in modo speciale e forse senza che ce ne accorgiamo, forse vorremmo anche allontanarla questa possibilità. Da celebranti, da persone che rappresentano Gesù, noi diciamo: “Questo è il mio corpo”, e certamente noi lo diciamo a nome Suo: è il Corpo di Cristo, ma è anche il corpo della Chiesa, è anche il corpo del prete che in quel momento consacra. E il Corpo di Gesù Crocifisso non può diventare anche il corpo crocifisso del prete? Per questo una Messa è pesante. Voi dite: “Ma che fa? Hai detto una Messa!”, come se si trattasse di una sacra rappresentazione, di una performance, invece si entra dentro le piaghe. Il Suo Sangue, la Sua disperazione, la Sua invocazione al Padre, il Suo desiderio è stato anche di Alfonso: che passi il calice, non lo voglio bere. Mi sembra che la Messa ci connoti sin nelle radici, al punto che il sacerdote possa diventare anche il sacrificio. Per questo ho voluto condividere la parola detta in segreto (eravamo solo lui ed io): “Alfonso, coraggio, vai fino in fondo a questa Messa!”. E lui ci è andato, senza perdere la fede. Questo è il miracolo: il miracolo non sono i preti perfetti, ma i preti che credono davanti a tante bare, magari di giovani, di vite stroncate dal cancro, di morti che seminano disperazione. Questo è il miracolo. E questo miracolo lo chiediamo per noi. Lui non ne ha più bisogno, perché lui sì che è nella festa.

Alfonso, perdonaci se questa festa noi non siamo riusciti a organizzarla. Adesso ci comprendi più di quanto non riuscissi a fare in questi giorni, in questi luoghi, in questo tempo, in questo spazio. La festa è tua. Per noi, dal nostro versante, c’è solo tanta disperazione. Ma è una disperazione speranzosa.

In queste ore ti abbiamo immaginato nell’incontro con i tuoi genitori, con tante persone che ti hanno voluto bene e che ti hanno preceduto, come Don Tito, che è stato parroco di questa comunità (l’ho immaginato che entrava alla festa nelle spalle come faceva nei momenti di maggiore tenerezza); ti ha accolto Padre Angelo della Parrocchia di Sparanise che, quando tornava dalla missione, seminava infanzia, gioia ed entusiasmo in tutti; Antonietta Castagna (per dire i personaggi che abbiamo conosciuto e che ti avranno accolto), don Geppino sicuramente avrà fatto una battuta quando ti sei presentato, Don Mimì… e tanti altri.

Prega per noi, fa’ che questa tua morte non sia inutile, ma generi tanta fede, riunisca il presbiterio di Teano-Calvi intorno al suo Vescovo Giacomo, generi miracoli. Fa’ che possiamo dire: “Ricordi? Intorno a quella bara siamo cambiati!”. Aiutaci a percorrere il lasso di tempo che ancora ci rimane per concludere anche noi la nostra Messa così difficile.

Ti ha sorriso la Madonna della Stella? Quando facevamo le hit parade con i seminaristi, alla domanda: “Qual è la più bella immagine mariana della Diocesi di Teano-Calvi?”, vinceva sempre la Madonna della Stella. Adesso non la vedi più nell’immagine e tu sai quanto sia più bella di quanto questa statua rappresenti. A Lei ti affidiamo: certamente ti avrà aperto le porte e ti avrà consegnato la stella che è il Suo Figlio Gesù. Noi siamo ancora in cammino: fa’ che non ci perdiamo, fa’ che non ci perdiamo d’animo, aiutaci a mantenere il canto della speranza anche sulle macerie di questa nostra povera vita.  Amen.  

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Il testo, tratto dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.